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La strage della Benedicta

Sinossi

Data: 6 aprile 1944
Località interessate: Appennino ligure-piemontese attorno al Monte Tobbio
Unità partigiane: brigata Autonoma militare Alessandria – III brigata d’assalto Garibaldi
Unità nazifasciste: 1000 uomini del Kampfgruppe Rohr (1 battaglione 869° reggimento granatieri e 871° reggimento granatieri), 350 uomini della Gnr, qualche decina di bersaglieri della Rsi
Vittime: 150 morti, 200 prigionieri

La cascina Benedicta

Testo tratto da
Dizionario della Resistenza
A cura di Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi
Voce Benedicta [Brunello Mantelli]
Einaudi, 2001 e 2006


Il 6 aprile 1944 nella zona dell’Appennino ligure-piemontese che si stende attorno al Monte Tobbio (circa 25 chilometri a nord-ovest di Genova) e che comprende i centri abitati di Fraconalto, Lerma, Rossiglione, Mornese, Voltaggio, ha inizio un rastrellamento di vaste dimensioni. A condurlo sono poco più di mille ufficiali e soldati della Wehrmacht, coadiuvati da circa trecentocinquanta uomini della Gnr e da alcune decine di bersaglieri dell’esercito fascista repubblicano. Il ruolo degli italiani sarà però del tutto secondario dal punto di vista operativo (alla Gnr sarà affidato il compito di bloccare le strade di uscita dal territorio rastrellato, ai bersaglieri quello di fucilatori: saranno infatti loro a fucilare i partigiani catturati dai reparti germanici). L’azione, condotta da tre colonne che puntano a bloccare completamente il territorio attorno al Tobbio, ha caratteristiche di annientamento. Nell’area investita dalle unità germaniche (la III Zona operativa ligure, secondo la denominazione ufficiale del Cln) operano due formazioni partigiane, la brigata Autonoma militare Alessandria, forte di circa 200 uomini, e la III brigata d’assalto Garibaldi, con circa 570 uomini. Entrambe sono assai male armate. Anche il territorio su cui esse si sono insediate non è dei più felici, montagnoso e relativamente brullo, non offre grandi possibilità né di manovra né di sostentamento; l’unico vantaggio è la presenza di una serie di casolari adibiti a cascine (tra cui, appunto, quella della Benedetta, o Benedicta, originariamente un monastero dove si è insediata l’intendenza della III brigata Garibalda) che possono offrire rifugio. Nonostante le difficoltà logistiche, i partigiani delle due brigate non restano passivi, ma nelle settimane precedenti il rastrellamento attuano svariati attacchi a postazioni e caserme della Rsi (anche allo scopo di procurarsi armi e munizioni) e tendono imboscate a unità nemiche in transito. Il culmine di questa attività si ha il 28 marzo, quando il paese di Voltaggio viene occupato e tenuto per alcune ore, ma ancora il 3 aprile vengono colpiti due automezzi militari tedeschi in transito. A questa effervescenza operativa non corrispondono però né un’adeguata organizzazione dei reparti, né un coordinamento efficiente; infatti, sebbene dagli ultimi giorni di marzo siano giunte ai comandi numerose informazioni circa un’imminente operazione tedesca nella zona e sia di conseguenza stato predisposto un piano di sganciamento, esso non verrà messo in atto al momento decisivo.

Il rastrellamento, condotto da unità militari regolari bene armate, si risolve in una disfatta per le forze partigiane: oltre centocinquanta i caduti, oltre duecento i prigionieri, sbandati e dispersi gli altri, contro appena quattro morti e ventiquattro feriti lamentati dai rastrellatori. Dei morti partigiani, trenta risultano periti in combattimenti, gli altri fucilati dopo la cattura in diverse località, per mano dei bersaglieri della Rsi. I prigionieri, concentrati in gran parte a Novi Ligure (diciassette di loro vengono trasferiti nelle carceri di Genova, e poi inclusi nel gruppo di coloro che saranno fucilati al passo del Turchino il 19 maggio successivo) sono avviati il 12 aprile al campo di concentramento di Mauthausen, dove giungono il 16 successivo. Dei 191 giovani lì deportati, 144 muoiono sicuramente in lager, trenta riescono a tornare a casa, gli altri vengono ingoiati dall’universo concentrazionario e spariscono senza lasciare traccia. Due giorni prima, il 10 aprile, parte dalla stazione di Novi Ligure un altro treno blindato diretto in Germania; vi sono rinchiusi circa centosessanta giovani  della zona coinvolta dal rastrellamento, i quali hanno creduto alla buona fede degli occupanti tedeschi e delle autorità fasciste repubblicane e si sono consegnati nei giorni immediatamente precedenti l’azione. Concentrati anch’essi a Novi Ligure, sono mandati nel Reich per esservi utilizzati come manodopera coatta;; sebbene accompagnati anch’essi da una scorta (relativamente ridotta di numero), riescono a fuggire durante una sosta a Sesto San Giovanni grazie all’appoggio dei ferrovieri e della popolazione locale. Nonostante le due formazioni partigiane non particolarmente pericolose, ad attuare il rastrellamento vengono utilizzate unità dei reggimenti granatieri 869° (il suo primo battaglione) e 871° poste agli ordini del colonnello Günther Rohr, comandante dell’871°.. Si tratta di una formazione costituita ad hoc (sotto il nome di Kampfgruppe – gruppo di combattimento – Rohr) già entrata in azione il mese precedente (dal 12 al 20 marzo) in Val Casotto, dove – a ranghi quasi identici – è riuscita a sgominare la formazione autonoma forte di oltre seicento uomini discretamente armati guidata da Enrico Martini «Mauri», obbligando il comandante e un piccolo nucleo rimasto organizzato a spostarsi nelle Langhe. A quale logica obbediscono tali azioni? In questo periodo le unità partigiane attive o in via di organizzazione in quella zona si trovano – a loro insaputa – a essere pedine di un gioco strategico ben più vasto, il che fa sì che esse subiscano attacchi di gran lunga sproporzionati rispetto alle loro effettive capacità militari. Il comando supremo tedesco (Oberkommando der Wehrmacht – OKW) ritiene infatti assai probabile uno sbarco angloamericano nel Mediterraneo nordoccidentale, nella Francia meridionale oppure sulle coste ligure o toscana settentrionale. In quest’ultima eventualità i luoghi minacciati sono quelli dotati di una buona attrezzatura portuale: Genova o Livorno. Data la struttura orografica della costa, che rende impossibile schierare una quantità sufficiente di truppe tra le montagne e il mare, i piani difensivi prevedono la collocazione di una massa d’urto (pari a circa due divisioni) oltre le montagne, la quale dovrebbe poi intervenire in tutta fretta contro la testa di ponte angloamericana nel frattempo incapsulata dalle unità di prima linea. Il piano prevede l’intervento di due divisioni che, partendo dal Novese e dall’Acquese, piombino su Genova lungo le strade Acqui-Cairo-Savona, Acqui-Sassello-Albisola, Ovada-Voltri, Novi Ligure-Genova. A rendere necessario, agli occhi degli ufficiali della Wehrmacht, l’annientamento delle formazioni partigiane non è perciò la loro pericolosità attuale, quanto l’esigenza di non avere ostacoli nell’eventualità di dovere transitare con la massima celerità possibile, e in una situazione in cui ogni minuto può essere prezioso, per le vie di comunicazione che collegano il litorale con l’entroterra. Il rastrellamento della Benedicta, per il suo esito catastrofico in caduti e deportati e per lo strascico che lascia in una zona appenninica già sottoposta a fenomeni di spopolamento e perciò profondamente ferita nella sua struttura demografica, impressiona a fondo i contemporanei e conquista uno spazio nella storiografia della Resistenza. Come in altri casi analoghi, soltanto attraverso l’esame dei documenti militari tedeschi è stato possibile comprendere a fondo la logica che ha guidato il rastrellamento e ricostruirne puntualmente le modalità di attuazione.